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Il diritto all’affettività all’interno del carcere: una sentenza storica

Com’è noto, secondo la nostra Costituzione, al venir meno della libertà personale per effetto di un provvedimento restrittivo, non dovrebbe corrispondere la diminuzione o la totale privazione degli altri diritti fondamentali del detenuto.

L’utilizzo del condizionale è d’obbligo se si pensa alle attuali condizioni dei luoghi di detenzione (Case circondariali, Case di reclusione e C.P.R.) e alle costanti privazioni di diritti che subiscono le persone ivi detenute.

Di un diritto in particolare si è occupata la Corte costituzionale all’inizio di quest’anno, ossia del diritto all’affettività delle persone detenute. Nella sentenza n. 10 del 26 gennaio 2024, infatti, la Consulta ha cambiato rotta rispetto ad un suo precedente orientamento e ha sostenuto, per la prima volta, che lo Stato debba garantire il rispetto di tale diritto. A questa soluzione la Corte è approdata ripercorrendo le modifiche intervenute a livello normativo dal 2012 ad oggi e soffermandosi sull’importante tema dell’interpretazione dei precetti costituzionali alla luce del diritto positivo.

La questione di legittimità costituzionale sollevata dal Magistrato di Sorveglianza di Spoleto aveva ad oggetto la presunta violazione di alcune norme fondamentali della Costituzione, anche in relazione agli artt. 3 e 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, da parte dell’art. 18 o.p. “nella parte in cui non prevede che alla persona detenuta sia consentito, quando non ostino ragioni di sicurezza, di svolgere colloqui intimi, anche a carattere sessuale, con la persona convivente non detenuta, senza che sia imposto il controllo a vista da parte del personale di custodia”.

La Corte, per prendere la sua decisione, ha fatto riferimento al mutamento del quadro normativo. Oltre alla legge n. 76/2016, che ha esteso i diritti previsti dalla legge per i coniugi anche alle persone unite civilmente, è intervenuto l’art. 19 del d.lgs. n. 121/2018, che regola il diritto all’affettività per i detenuti minorenni. Il mutamento del contesto normativo, unitamente alle riflessioni che si sintetizzeranno a breve, ha indotto la Consulta a pronunciare una sentenza di fondamentale importanza che ha riportato in evidenza il diritto all’affettività delle persone detenute, considerato sino un diritto c.d. sommerso.

In primo luogo, la Corte si è soffermata sull’istituto del permesso premio, che nonostante sia concedibile anche «per consentire di coltivare interessi affettivi» (art. 30 ter, comma 1, o.p.), non elimina il problema dell’affettività del detenuto. Il permesso premio consente solo di alleggerirlo, trasferendo fuori dalle mura la realizzazione delle esigenze affettive per chi abbia accesso al beneficio premiale.

La Corte ha poi precisato che “l’inadeguatezza dell’attuale situazione normativa è di particolare evidenza per il detenuto in attesa di giudizio, al quale è preclusa l’affettività extra moenia a causa dell’impossibilità di fruire di permessi premio ed è altresì preclusa l’affettività intramuraria per effetto dell’art. 18 ordin. penit., tutto ad onta della presunzione di non colpevolezza fino a condanna definitiva, di cui all’art. 27, secondo comma, Cost.”.

Ciò posto, la Corte ha dichiarato la fondatezza delle questioni sottoposte e ne ha indicato le ragioni. Innanzitutto, viene riconosciuta la violazione dell’art. 2 Cost. da parte dell’art. 18 della legge n. 354 del 26 luglio 1975 nella parte in cui non consente alla persona detenuta di svolgere colloqui intimi, in quanto non permette al soggetto di realizzarsi all’interno di una formazione sociale, quale è sia la comunità carceraria sia la relazione affettiva che gli viene negata.

La questione dell’affettività intramuraria, secondo la Corte, concerne l’individuazione del limite concreto entro il quale lo stato detentivo è in grado di giustificare una compressione della libertà di esprimere affetto, anche nella dimensione intima; limite oltre il quale il sacrificio della libertà stessa si rivela costituzionalmente ingiustificabile, risolvendosi in una lesione della dignità della persona. È proprio sul rispetto della dignità della persona che si fonda il trattamento penitenziario. Inoltre, in forza del principio del minimo mezzo, non possono essere adottate restrizioni non giustificabili con l’esigenza del mantenimento dell’ordine e della disciplina. In aperto contrasto con tale principio, secondo la Corte costituzionale, si pone pertanto l’art. 18 o.p., il quale prevede il controllo visivo del colloquio del detenuto senza eccezioni. Quindi, il controllo auditivo sul colloquio è escluso salvo eccezioni, mentre il controllo visivo è prescritto senza eccezioni, e proprio questa assolutezza espone la disposizione a un giudizio di irragionevolezza per difetto di proporzionalità.

Costituisce un altro profilo di irragionevolezza delle restrizioni imposte all’espressione dell’affettività, l’effetto che le stesse producono sulle persone non detenute che, legate al detenuto da una stabile relazione affettiva, vengono limitate nella possibilità di coltivare il rapporto. Si tratta di persone estranee al reato e alla condanna, che subiscono dalla descritta situazione normativa un pregiudizio indiretto del tutto ingiusto.

Tutto ciò premesso, è chiara, secondo la Corte costituzionale, anche la violazione dell’art. 27 terzo comma Cost., in ragione della inidoneità a raggiungere la finalità rieducativa di una pena che non consente al condannato di vivere pienamente la propria affettività. Tale privazione comporta un naturale indebolimento delle relazioni affettive e provoca una «desertificazione affettiva» che è l’esatto opposto della risocializzazione.

La Corte, infine, soffermandosi anche sulla violazione dell’art. 8 CEDU, ha riconosciuto la necessità di operare un fair balance tra gli interessi pubblici e privati coinvolti, in modo da evitare il difetto di proporzionalità tra il divieto di esercizio dell’affettività all’interno dei luoghi di detenzione e le finalità che persegue. L’assolutezza della previsione censurata faceva prevalere tali finalità a discapito del diritto fondamentale delle persone detenute all’affettività, il quale, successivamente a tale pronuncia (e ai numerosi interventi di carattere normativo e amministrativo che saranno necessari a tutelarlo) può considerarsi riemerso.

La pronuncia analizzata è da considerarsi storica in quanto, per la prima volta, la Corte costituzionale riconosce un diritto fino ad ora negato alle persone detenute. Il diritto all’affettività e alla sessualità, secondo la Corte, contribuisce a rendere la pena più umana e dignitosa, nel rispetto dei principi sanciti dall’art. 27 comma 3 Cost.

scritto da avv. Luisa Morelli e avv. Camilla Riefoli