Con la “Riforma Cartabia” è stata approvata, anche, una disciplina organica della giustizia riparativa, innovativo modello di giustizia consensuale e partecipativo, che abbandona la logica tradizionale della punizione, per puntare alla composizione del conflitto attraverso forme di restorative justice.
È “giustizia dell’incontro” (Vi ricordate l’articolo in commento al bellissimo “Libro dell’incontro”?), è giustizia “rigenerativa”, di legami e di orizzonti, per ritessere desideri e prospettive, per ricucire uno strappo, per rimarginare la ferita di una biografia, che può essere di una persona, di più persone, ma anche di una intera comunità.
Nella prospettiva della giustizia riparativa svolge un ruolo fondamentale il coinvolgimento della comunità, in quanto luogo accogliente, inclusivo, riparativo, ove ritessere il legame delle persone coinvolte: l’autore dell’offesa e la vittima.
Si tratta senz’altro di una grande sfida culturale, prima che giuridica e normativa. Il reato diventa prima di tutto un evento relazionale e, quindi, anche la risposta al reato non potrà che essere relazionale: la pena da sola non può essere sufficiente perché non è in grado di riconoscere la vittima per ciò che le è successo. Ciò che viene messo a fuoco non è la vittima, né il presunto autore di reato, quanto la loro relazione, in un complesso lavoro di reciprocità.
Mentre la giustizia penale lavora inevitabilmente sul passato, la giustizia riparativa apre al futuro (e può intervenire anche a pena già scontata).
Alla base sta la certezza che l’uomo cambia e si trasforma.
Ma qual è il nostro ruolo di avvocati nella giustizia riparativa? Anzitutto quello di informare il nostro assistito (sia egli presunto autore di reato o vittima) della possibilità anche solo di un colloquio con il mediatore e, poi, laddove sia stato attuato un programma di giustizia riparativa, tradurre in processo al giudice il risultato della mediazione.
Noi difensori prima di tutti dobbiamo sapere che i programmi di giustizia riparativa tendono a promuovere il riconoscimento della vittima del reato, attraverso la responsabilizzazione della persona indicata come autore dell’offesa e la ricostituzione dei legami con la comunità e sono accessibili senza nessuna preclusione, neppure in relazione alla fattispecie di reato per cui si procede o alla sua gravità.
La legge Cartabia (D. Lgs. n. 150/2022) fornisce alcune importanti definizioni che devono essere tenute a mente: per “giustizia riparativa” deve intendersi qualsiasi programma “che consente alla vittima del reato, alla persona indicata come autore dell’offesa e ad altri soggetti appartenenti alla comunità di partecipare liberamente, in modo consensuale, attivo e volontario, alla risoluzione delle questioni derivanti dal reato, con l’aiuto di un terzo imparziale, adeguatamente formato, denominato mediatore” (art. 42).
Fondamentale il ruolo dei mediatori (almeno due per ogni percorso): in modo equiprossimo alle parti, imparziale e riservato, ma anche empatico (nella definizione di empatia di Edith Stein, come “giusta distanza per stare accanto”), devono creare una situazione neutrale in cui reo e vittima possano incontrarsi e confrontarsi.
La partecipazione ad un programma di giustizia riparativa che si sia concluso con esito riparativo (sia esso simbolico o materiale) comporta la remissione tacita della querela e quindi la pronuncia di una sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato in tutti i casi di reati procedibili a querela.
Per i reati procedibili di ufficio, invece, l’esito riparativo inciderà comunque sul quantum di pena e sulla concessione della sospensione condizionale della pena.
In ogni caso, la mancata effettuazione del programma, la sua interruzione o il mancato raggiungimento di un esito riparativo non produrranno effetti sfavorevoli per la persona indicata come autore dell’offesa nel procedimento penale a suo carico.
Scritto da avv. Luisa Morelli