Questa volta ho deciso di partecipare ad un corso di scrittura: per essere più precisi, ad un corso di scrittura giuridica.
Il nome del relatore, Gianrico Carofiglio, era già carico di molte aspettative, che, per quanto mi riguarda, sono state ampiamente soddisfatte.
Può sembrare strano, ma, anche dopo così tanti anni passati a scrivere atti, istanze, impugnazioni, pareri, lettere, un avvocato ha sempre da imparare, per cercare di affinare il proprio modo di scrivere.
Quella giuridica è una lingua tecnica: ha espressioni e contenuti tecnici e pertanto il suo livello di accessibilità può sembrare limitato ai cd. “addetti ai lavori”.
Eppure, il nostro obiettivo fondamentale dev’essere quello di rimuovere tutta “l’oscurità non necessaria”, ossia tutte quelle parole non imprescindibilmente legate alla natura tecnica del linguaggio giuridico.
Una la regola fondamentale per scrivere “bene”: comporre periodi sempre al di sotto delle venticinque parole, poichè è provato che, oltre, l’indice di leggibilità e chiarezza precipita; assegnarci uno spazio massimo per scrivere “ciò che serve”, poichè “la creatività ha sempre bisogno di costrizioni”.
Dalla regola delle venticinque parole discendono altre regole essenziali per un buon giurista che debba andare sempre alla ricerca della funzione di ciò che scrive:
– il soggetto e il verbo devono stare il più possibile vicini e mai invertiti tra di loro, nella ricerca di un tono più solenne che si rivela invece soltanto più ridicolo;
– utilizzare verbi che diano l’idea del “movimento del pensiero” e il meno possibile nella loro forma passiva, che crea distacco anzichè persuasione;
– pensare sempre a entità concrete e non a concetti astratti;
– creare immagini, soprattutto per la ricostruzione dei fatti;
– utilizzare solo se assolutamente necessario gli avverbi (l’avverbio – dice Carofiglio – è sempre segno di insicurezza);
– evitare gli “pseudotecnicismi”, ossia le parole che solo in apparenza costituiscono un’espressione tecnica;
– mai anteporre l’aggettivo (in particolare se distintivo) al nome (si tratta – secondo Carofiglio – di “uno dei più vistosi indizi di inconsapevolezza linguistica”);
– evitare le doppie negazioni, che appesantiscono la scrittura, infastidiscono chi legge e soprattutto non servono ad altro che ad un “mediocre sfogo retorico”;
– eliminare tutte le parole inutili (che, spesso, sono anche dannose): la scrittura di qualità non è quasi mai una scrittura di getto; è necessario tagliare, eliminare il superfluo, tutto ciò che – parole o intere frasi – non corrisponde a necessità del pensiero.
In poche parole, servono METODO e CONSAPEVOLEZZA, che poi, a ben pensarci, si sovrappongono in un’unica finalità: il miglioramento della qualità estetica dei nostri scritti, che sia anche miglioramento della qualità e della forza argomentativa di una scrittura chiara ed efficace.
Gli errori della scrittura, di regola, sono errori del pensiero: non è, infatti, possibile scrivere con chiarezza se non si è in grado di pensare e parlare con chiarezza.
L’effetto psicologico della chiarezza espositiva dipende dalla parsimonia della struttura sintattica; essenziale è la linearità dell’esposizione, spesso disturbata dalle frasi incidentali, che, se necessarie, devono essere di pochissime parole.
Per queste ragioni sono sempre preferibili frasi coordinate tra loro piuttosto che subordinate ed è assolutamente da evitare l’abuso delle subordinate, ancor più se si tratta di subordinate implicite (per esempio introdotte dal gerundio).
Scritto da avvocato Luisa Morelli