Luisa Morelli scrive il suo Blog

Al cinema con la Camera Penale

In questa fine d’anno vogliamo condividere con voi che ci leggete un breve commento sul film “Ariaferma” del regista Leonardo Di Costanzo che abbiamo avuto l’occasione di vedere presso il Cinema Nuovo Eden di Brescia con un gruppo di colleghi lo scorso 9 dicembre durante uno degli incontri formativi organizzato dalla nostra Camera Penale.

La visione del film veniva preceduta da un interessante incontro, moderato dall’amica e collega Veronica Zanotti, Presidente della Camera Penale di Brescia, cui intervenivano la dott.ssa Silvia Frassine, responsabile dell’Area trattamentale del carcere di Verziano, la dott.ssa Letizia Tognali, Comandante del Corpo di polizia penitenziaria in servizio presso la Casa di reclusione Nerio Fischione di Brescia, e la dott.ssa Sara Lucaroni, giornalista e scrittrice.

Diverse le difficoltà dell’ambiente carcere che emergevano, sebbene sotto diverse prospettive, essendo ben distinte le professioni da ciascuna delle relatrici svolte.

Nonostante la diversità dei ruoli, durante lo scambio di opinioni e il reciproco confronto emergeva però un fil rouge: l’impossibilità di instaurare normali rapporti di comunicazione (tra detenuti e guardie, tra detenuti – ma se vogliamo anche tra guardie! – e mondo esterno) e il senso di solitudine che pervade gli appartenenti dell’uno e dell’altro gruppo sono i temi che sono stati da tutte percepiti come più gravi, tenendo ben presente che, quando si è detenuti (a maggior ragione se in applicazione della misura cautelare, a seguito dell’arresto, si ha una drastica ed improvvisa interruzione delle relazioni personali e dei legami affettivi) è la comunicazione con l’esterno ciò che tiene in vita, ciò che dà speranza. 

Le relatrici ci hanno ricordato, ciascuna dal proprio punto di vista, che all’interno di un istituto penitenziario il tempo viaggia lento e il cambiamento fa sempre un po’ paura…

E sono proprio questi i temi più significativi trattati dal film “Ariaferma”.

Una pellicola eccezionale, girata nell’ex carcere sardo di San Sebastiano, che racconta però di una realtà non precisamente collocabile nel territorio italiano: il carcere di Mortana è, infatti, un luogo immaginario.

La diroccata struttura carceraria ottocentesca è in via di dismissione: la maggior parte dei detenuti è già stata trasferita verso altri istituti, ma una manciata di loro, per problemi burocratici, è costretta a permanervi, in attesa di conoscere la nuova destinazione, nell’incertezza di una comunicazione che nulla fa sapere circa il momento in cui si verificherà.

Alcuni agenti, anch’essi pronti al trasferimento, vengono incaricati, loro malgrado, dell’osservazione e del controllo di questi pochi detenuti rimasti; la notizia del brusco contrordine lascia loro un senso di frustrazione che li costringe ad una snervante attesa.

L’intento del regista, che emerge chiaramente fin da subito, non è tanto quello di denunciare la (forse da sempre) emergenziale condizione delle carceri italiane, quanto piuttosto quello di spingere lo spettatore a riflettere sui rapporti umani che si instaurano, nel contesto “chiuso” della comunità carcere, tra detenuti e agenti di polizia penitenziaria, due microcosmi conviventi e insieme separati dalle sbarre e dai reciproci ruoli.

Ciascuno dei due gruppi vive a suo modo una condizione di isolamento e nessuno è libero, neppure le guardie (colpisce lo spettatore la frase pronunciata dal detenuto Carmine Lagioia – Silvio Orlando – che, rivolgendosi all’ispettore Gargiulo – Toni Servillo– lo apostrofa, con amara ironia: “È dura stare in carcere eh?”; parole che, nonostante il tentativo di autocontrollo dell’ispettore, fanno breccia nel suo animo).

Detenuti e guardie vivono quindi in un tempo sospeso, muovendosi in un’atmosfera appunto “ferma”, “stagnante”… i giorni scorrono lentamente tutti uguali uno dopo l’altro… (i detenuti non fanno che ripetere: “Quando ci trasferite?”; le guardie non fanno che tentare di rassicurarli: “Non vi preoccupate, manca poco!”, ma nulla cambia).

I detenuti, privati delle loro abitudini (vengono eliminati i colloqui con i familiari; viene eliminata addirittura la cucina interna, ciò che più li destabilizza, considerando quanta importanza rivesta per un detenuto il pasto), sono costretti in un costante stato di insofferenza, mal sopportando regole ferree che, seppur necessarie a mantenere l’ordine, risultano loro irragionevoli e rispetto alle quali non è comunque ammessa alcuna possibilità di confronto. Durante l’apertura diurna delle celle i detenuti sono liberi soltanto di circolare all’interno dell’unica ala della struttura ancora funzionante.

Il film mette in scena la vita; una vita dominata da gerarchie e regole rigide che tuttavia vanno superate in nome di una comune umanità. Il film descrive perfettamente la tensione che si respira in carcere, alimentata dall’isolamento spazio-temporale che grava su entrambe le parti sociali coinvolte, ma proprio questo dimostra l’importanza di ricercare i giusti canali di comunicazione, che non necessariamente devono essere di tipo verbale: i protagonisti del film trasmettono le loro emozioni soprattutto attraverso la gestualità, i silenzi (talvolta ostinati), le espressioni facciali.

Il giusto dialogo, o i giusti gesti, permettono in qualche modo di colmare, almeno in parte, il divario fra le parti, riducendo le occasioni di scontro o portando a rari momenti di comprensione reciproca: nella parte finale del film il detenuto Lagioia e l’ispettore Gargiulo condividono un breve ma significativo spazio di libertà nel cortile del carcere; la distanza che li separa resta incolmabile, ma nel momento in cui il camorrista Lagioia arriva a confessare all’ispettore Gargiulo, liberandosi quasi di un peso, di averlo conosciuto in tempi lontani, di aver condiviso le origini umili e di aver sempre vissuto con disagio la sua presenza all’interno del carcere, nonostante la calma e la sicurezza normalmente ostentate (“Mi sono sempre vergognato di dire a mio fratello che una delle guardie era il figlio di Oreste il lattaio”), tornano ad essere per un attimo entrambi se stessi, due individui con un proprio animo, due esseri umani che si confrontano.

Durante tutto il film guardie e detenuti si trovano a condividere una situazione di emergenza, che diventa un vero e proprio banco di prova della natura umana.

Situazione di emergenza paragonabile, sotto molto aspetti, a quella che si è venuta a creare in tutte le carceri a seguito della pandemia Covid che, nondimeno, come ci è stato spiegato dalle relatrici, negli istituti di pena è stata affrontata tentando di apportare un qualche miglioramento alla vita dei detenuti: nell’impossibilità di colloqui di persona, la possibilità di telefonare a casa è divenuta quotidiana; alle telefonate si sono aggiunte le videochiamate in Skype (che consentono di parlare e vedere, seppure a distanza, l’intera famiglia a casa); ma, ciò che, in particolare, ha subìto un cambiamento è il comune sentire di detenuti e polizia penitenziaria all’interno del carcere:  la condivisione di quegli stessi sentimenti di solitudine; la  comprensione reciproca dei diversi ruoli; l’agente che fa meno fatica a comprendere la mancanza di libertà. 

Scritto da avvocato Luisa Morelli e dottoressa Elisa Bettoni